Le tolleranze di cantiere come disciplinate dall’art. 34 bis D.P.R. 380/2001. Disamina di un caso pratico.
1. Introduzione
Assistiamo con una certa frequenza società operanti nell’edilizia per risolvere problematiche relative alla realizzazione di edifici difformi dal progetto edilizio assentito dall’ente comunale. In particolare, è accaduto che, quando si è reso necessario presentare dei progetti edilizi di modifica del realizzato immobile o di singole unità immobiliari (ristrutturazioni edilizie o manutenzioni straordinarie), si è contestualmente reso necessario presentare un progetto asseverato riportante uno stato di fatto lievemente difforme rispetto al progetto originario.
Al netto di ipotesi di abusi edilizi che, in quanto tali, sono stati affrontati attraverso l’applicazione delle normative specifiche previste dal Testo Unico per l’Edilizia, ci sono stati dei casi in cui si sono potuti risolvere tali criticità attraverso l’applicazione della normativa in materia di tolleranze costruttive o di cantiere.
Con l’odierno scritto si procederà quindi all’analisi dell’innovativa disciplina introdotta con l’inserimento nel Testo Unico dell’Edilizia dell’art. 34 bis D.P.R. 380/2001 come novellato dal D.L. 76/2020 poi convertito in legge.
2. Inquadramento
Prima di esaminare la norma nazionale, ci corre l’obbligo di precisare che la disciplina delle tolleranze costruttive o di cantiere viene spesso affrontata anche da norme regionali o dai regolamenti comunali che inevitabilmente andranno applicate nei singoli casi specifici. Ovviamente la norma nazionale è sempre applicabile e andrà interpretata unitamente alle norme regionali e locali.
L’art. 34 bis D.P.R. 380/2001 prevede due commi con cui sono state indicate due modalità per determinare quando una difformità dello stato di fatto rispetto al progetto possa rientrare tra i casi di tolleranze di cantiere ammissibili che, in quanto tali, non sono considerate realizzazione abusive.
Il primo comma introduce un criterio che definiamo “oggettivo”. La norma infatti prevede che “Il mancato rispetto dell’altezza, dei distacchi, della cubatura, della superficie coperta e di ogni altro parametro delle singole unità immobiliari non costituisce violazione edilizia se contenuto entro il limite del 2 per cento delle misure previste nel titolo abilitativo”.
E’ evidente che tale criterio è meramente matematico e quindi la norma è molto chiara e non necessita di particolare attività interpretativa. E’ infatti indubbio che su determinati parametri edilizi precisamente indicati si ritengono tolleranze ammissibili le difformità rientranti nel limite del 2 per cento rispetto alla misure prevista nel progetto autorizzato dall’ente pubblico.
Viceversa il secondo comma introduce una previsione più discrezionale e quindi soggetta a forte attività interpretativa. La norma afferma che “ Fuori dai casi di cui al comma 1, limitatamente agli immobili non sottoposti a tutela ai sensi del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, costituiscono inoltre tolleranze esecutive le irregolarità geometriche e le modifiche alle finiture degli edifici di minima entità, nonché la diversa collocazione di impianti e opere interne, eseguite durante i lavori per l’attuazione di titoli abilitativi edilizi, a condizione che non comportino violazione della disciplina urbanistica ed edilizia e non pregiudichino l’agibilità dell’immobile”.
Sulla base delle circolari interpretative e la giurisprudenza che si sta formando, si ritiene che tale comma sia applicabile allorché la minima differenza è dovuta ad errori esecutivi geometrici che, seppur lievi, possono superare la soglia del 2% previste nel primo comma. Tali difformità per essere ritenute tolleranze di cantiere ammissibili necessitano che la modifica non determini problemi di natura statica e modifiche estetiche della parte esteriore dell’edificio e, inoltre, si richiede che l’edifico non sia sottoposto ad un vincolo e, infine, che le lievi modifiche non violino norme edilizie ed urbanistiche e non pregiudichino l’agibilità dell’immobile.
3. Applicazione pratica e conclusioni
Per far comprendere l’applicazione del 2° comma dell’art. 34 bis D.P.R. 380/2001, si riporta un caso concreto che abbiamo affrontato. In Mvlexstrategy è infatti capitato che, nell’esaminare una pratica edilizia finalizzata al recupero ai fini abitativi del sottotetto esistente dove risultavano delle difformità esecutive leggermente superiori al limite del 2% previsto nel primo comma dell’art. 34 bis D.p.R 380/2001, si sia riusciti a sviluppare un ragionamento che ha indotto il Comune competente ad applicare la previsione del secondo comma del medesimo articolo.
In particolare, nel caso esaminato risultavano delle difformità nelle altezze interne nella linea di gronda di un tetto a falda. Nel caso pratico si era accertato che la diversa gradazione dell’angolo interno del colmo e, per essere più precisi, la differenza in eccesso di un solo grado tra lo stato di fatto e lo stato di progetto, aveva determinato che le altezze delle linee di gronda non fossero coerenti rispetto alle altezze indicate in progetto. Un semplice grado di differenza, ossia una difformità non accertabile visivamente, aveva quindi determinato che le altezze fossero diverse e addirittura leggermente superiori rispetto al margine di tolleranza del 2% prescritto nel primo comma.
Attesa la lieve modifica che non alterava la parte statica ed estetica dell’edificio, si è dovuto quindi affrontare la tematica della violazione di norme urbanistiche e/o edilizie. Tale simulazione è stata effettuata applicando la normativa vigente alla data di presentazione della dichiarazione di fine lavori e quindi si è dovuto dimostrare che lo stato di fatto attuale poteva essere trasfuso in uno stato di progetto alla data di conclusione dei lavori. Tale dimostrazione è necessaria in quanto comprovante che lo stato di fatto difforme poteva benissimo essere assentito nel progetto originario o comunque con una variante conclusiva e che quindi, nel caso che si è esaminato, il sottotetto Senza Permanenza di Persone (SPP) poteva essere realizzato in quel modo alla data di fine lavori senza violare alcuna norma edilizia ed urbanistica.
Al fine di “regolarizzare” la criticità emersa si è quindi predisposta una relazione tecnico-giuridica dove si è evidenziato che la modifica era impercettibile, non modificava aspetti estetici, non incideva su elementi statici dell’edificio e, infine, che risultava conforme alla normativa urbanistica ed edilizia vigente alla data di conclusione dei lavori.
In ogni caso il documento essenziale necessario da depositarsi in comune è la relazione prescritta dal 3° comma dell’art. 34 bis D.P.R. 380/2001. Il progettista ha quindi predisposto, con l’assistenza del nostro studio, una dichiarazione con cui ha asseverato che le modifiche rientravano nelle tolleranze ammissibili di cui al secondo comma della norma citata.
La stessa norma abbiamo avuto modo di applicarla in casi simili dove, per esempio, le diverse larghezze dei muri perimetrali avevano determinato un leggero incremento di superficie coperta o volumetria. In studio riteniamo che tale norma sia molto importante e sicuramente sarà oggetto di diverse applicazioni in quanto potrà risolvere criticità che, come spesso accade, si potranno verificare in future opere realizzate.
Ovviamente l’applicazione del secondo comma dell’art. 34 bis D.P.R. 380/2001 deve essere valutata caso per caso tenuto conto del margine di discrezionalità che ha introdotto la norma rispetto al comma primo del medesimo articolo. Quello che si suggerisce è di esaminare compiutamente il progetto e lo stato di fatto e quindi, attraverso una specifica memoria, documentare ed esporre in maniera dettagliata le ragioni che inducono a ritenere che la modifica possa rientrare all’interno dei parametri indicati dalla normativa oggetto di disamina.